I casi Mihajlovic, Benatia, Muntari: razzismo o inciviltà?


In quest’ultima settimana sono avvenuti tre casi(tra i molteplici nel mondo) di insulti cosiddetti “razzisti”: Mihajlovic e Benatia a Torino, Muntari nei giorni scorsi a Pescara. Premettiamo: sono gesti da reprimere e da soffocare sul nascere, ma pensate siano davvero quei dieci tifosi i veri razzisti nel mondo? Riflettiamo un attimo sul significato della parola razzismo grazie alla nozione concepita dalla Treccani: 
concezione fondata sul presupposto che esistano razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze. È alla base di una prassi politica volta, con discriminazioni e persecuzioni, a garantire la ‘purezza’ e il predominio della ‘razza superiore’.

Questa è una definizione chiaramente storica, che stabilisce già da ora le soglie entro il quale un’azione viene catalogata come razzista: per esperienza, attribuire ad un concetto un significato sempre più generico lo deprezza sempre più, lo svaluta, tende a non assicurargli nel tempo il giusto rilievo. Un esempio? Pensate al significato del sostantivo “politica”: siete sicuri di riuscire a dare entro 15 secondi un definizione completa ed esaustiva di tale termine? 
E’ solo un esempio: ma il rischio è di trovarci tra cinquanta anni una nozione ormai senza senso. Il mito da sfatare è questo: l’usanza corrente di quelli che si vestono, con più individualismo che fratellanza, di paladini della giustizia è infatti basata su un pratica educativa dal carattere elementare e inefficace: associata la parola “merda” a una nazione(necessariamente dei paesi dell’est e/o africani), la frase viene magicamente etichettata come offesa razzista. Ma questi “pseudomagistrati” pronuncerebbero le stesse arringhe di fronte a “francese di mer**”? La chiamerebbero offesa razzista? Occhio a metterci la mano sul fuoco. 
E’ una conclusione apparentemente paradossale, ma forse i primi ad avere complessi di superiorità verso alcuni paesi sono proprio loro. E ancora: se di conseguenza vedono delle differenze tra un francese ed un serbo o un marocchino allora sono loro i primi a schedare l’essere umano in “razze”. Confondere l’inciviltà con il razzismo è cosa ormai comune: ma con questo non si vuole per nulla(lo ripetiamo per la seconda volta) sminuire un insulto del genere, il nostro obiettivo è solo quello di preservare il significato più intimo della parola “razzismo”, costretto a scomparire dalla sua tendenza ad essere sempre più vago e approssimativo. C’è l’utopia, in chi è su e decide, di eliminare il concetto di razzismo dalla mente delle persone in una modalità per nulla produttiva: aumento i presupposti per cui una offesa può essere giudicata tale, abbasso le soglie del “razzismometro” e penso che il gioco sia fatto.
Per il concetto già espresso in precedenza, questo è impossibile: anzi, ha un esito ancora più disastroso, ovvero quello di rendere ambiguo e poco comprensibile il vero peso che ha rivestito “l’essere razzisti” nella nostra storia. Il razzismo è altro: catalogare tante cose come razziste sarebbe una mancanza di rispetto a tante parentesi storiche avvenute da secoli a questa parte, come d’altronde paragonare un despota antisemita a un tifoso rappresenterebbe mettere su uno stesso piano qualcosa che ha un peso nettamente diverso. Pensate che in quel gruppo di tifosi ci siano state veramente le intenzioni di “garantire la ‘purezza’ e il predominio della ‘razza superiore'”? E allora perché loro stessi non fanno differenza quando associano la parola “merda” agli abitanti di una città italiana? Lo ripetiamo ancora: evitiamo di confondere l’inciviltà con il razzismo, è ingiusto. 
E’ ingiusto verso i 12,5 milioni di prigionieri africani imbarcati tra il 1500 e 1800 dall’Africa verso le nazioni più industrializzate; è ingiusto verso i 6 milioni di ebrei colpiti dall’arianizzazione nazi-fascista; è ingiusto verso il genocidio armeno, quello dei nativi americani o quello cambogiano fin troppo recente. E’ ingiusto verso il triangolo rosa di stoffa che gli internati omosessuali dei campi di concentramento nazisti dovevano aver stampato sulla loro casacca, è ingiusto verso il “collare” che il servus romano portava al collo per differenziarlo dal suo padrone. Il razzismo è un’altra storia: diffidate da chi punta il dito verso qualcuno e lo fa in piazza, diffidate da chi non contestualizza una frase detta in uno stadio e la getta nel calderone delle offese razziste. Diffidate dalle imitazioni: molto spesso quelli sono gli stessi che fuori da un supermercato allontanano il figlio da un povero mendicante. Chi cerca realmente di combattere il razzismo si dimostra in altre occasioni, in quelle pure: in quelle dove la medaglia te la vedi affissa solo davanti a uno specchio, nelle non-giornate della memoria in cui la commemorazione è insolita, ma anche autentica. Essere antirazzisti significa portare avanti il valore del ricordo come documento, in chi dice sì dove tutti dicono no, in chi non divide mai due mani di colore diverso. Salviamo la nozione “razzismo” dalla sua progressiva generalizzazione: preserviamo il suo valore storico. Un abile osservatore sa capire benissimo che il razzismo non è dentro uno stadio, ma fuori. 

A cura di 
C. Recanati

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